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29 dicembre 2010 3 29 /12 /dicembre /2010 16:55

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Se quattro fra i migliori artisti rock sulla piazza si mettono in combutta, e da punti diversi del mondo fanno capire che le intenzioni sono quelle di spaccare tutto, di solito c'è da preoccuparsi, perchè non è mai facile rispettare le aspettative quando si forma un supergruppo, anzi già usare questa parola diventa rischioso; non sarebbe la prima volta che forti personalità artistiche messe insieme si depotenziano, anziché generare una miscela esplosiva: è successo di recente coi Chickenfoot, gente di primo livello ma poche vere scintille. E in più, a furia di sentire musica usa e getta, la nostalgia montante per il sano vecchio rock può fare brutti scherzi, e di qualche sbiadita replica di clichè Seventies non avremmo saputo cosa farcene. Poi a dirla chiara, neppure la scelta di Kevin Shirley come produttore mi aveva convinto: rischiava di suonare tutto troppo patinato, troppo innaturale.
Invece, sentite un po' che botto; sono ostaggio di questo disco da almeno un mese, e neppure oso immaginare il terremoto che un lavoro come questo avrebbe causato se fosse uscito 30 o anche 40 anni fa; questa è l'evoluzione della specie: due britannici e due americani, hard rock, blues, Zeppelin, Who, Deep Purple, vecchia scuola aggiornata al 2010, con un chitarrista fiammeggiante come Joe Bonamassa, il talento ritmico e vocale di Glenn Hughes, un serio batterista, Bonham junior, ormai libero dall'ombra pesantissima del padre (e anche da qualche problema di alcolismo, pare) e il raffinato e poliedrico Derek Sherinian all'Hammond e derivati.
E' un assalto sonoro questo “Black Country Communion”, lo si capisce da come inizia, con quel giro di basso martellante degno di Steve Harris, e dall'impressione generale di venire da un'unica, infuocata session registrata in presa diretta senza smanettare troppo alla console, una vera boccata d'ossigeno in quest'epoca di blande canzonette sovraprodotte; 72 minuti senza che neppure mezzo secondo sia da buttare: d'accordo, Glenn Hughes da quando si è ripulito ha una certa tendenza a strafare; ha visto la morte naso a naso, e l'amico Tommy Bolin con certa robaccia ci ha rimesso la pelle, ma sarà una ventina d'anni ormai che ha smesso con le droghe: dall'uscita di “Blues” in poi sta vivendo una felice seconda vita, personale e artistica, e quindi potrebbe darsi una calmata e soprattutto smettere di strillare come un ossesso per far vedere che è nel pieno delle forze. Nessuno gli toglierebbe il suo prezioso appellativo di “Voice of Rock” se scegliesse un profilo più basso. Ma chi se ne importa: in fondo, chi lo ama vorrebbe sentilro sempre scoppiare di salute come fa dall'inizio alla fine in questo poderoso album, anche come bassista, come testimonia in maniera eloquente il micidiale intro di “Black Country”, e poi la sua maturità gli consente di cedere il centro della scena per farci apprezzare il talento di Smokin' Joe anche come cantante. Che fosse un asso delle sei corde, lo sapevamo già.

Eccezionali “Black Country”, “Song for Yesterday” (con un favoloso assolo di chitarra), “Down Again”, “Beggarman”, ma ascoltatelo tutto, barricatevi in casa.

 

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