Overblog
Edit post Segui questo blog Administration + Create my blog
25 maggio 2011 3 25 /05 /maggio /2011 15:58

Talk

 

Di solito quando si infila nel lettore cd un album anni '80, nel giro di quindici secondi arriva un refrain che suona familiare, seguito dalla tautologica constatazione che accidenti, sai che ti dico, questa roba è tremendamente anni '80. Ma per fortuna non sempre è così: è successo anche che un disco anni '80 fosse perfino troppo avanti, che scardinasse la banalità di certe categorie, come in realtà dovrebbe fare sempre la musica di qualità, e questo è decisamente il caso di "The Colour of Spring", un caso ancora più rumoroso se si pensa che in fondo, i Talk Talk erano nati come l'ennesimo gruppetto synth-pop accodato al successo dei Duran Duran, e i loro migliori exploit fino al 1986 erano esemplari da manuale new romantic come "Such a Shame" e "It's my Life". Se si fossero fermati lì, adesso dovremmo andare a cercarli in qualche volume di "One Shot '80", vicino a Gazebo o agli Alphaville, o nascosti nei credits della cover di Gwen Stefani di qualche anno fa.

Invece no, e proprio quella versione di "It's my life" ad opera della bionda ex No Doubt, così banalotta, doveva sottolineare che il signor Mark Hollis, il cantante del gruppo, non è uno dei tanti vocalist con cinque litri di lacca e poco altro in testa, anche solo per il suo timbro così particolare, e che verse-chorus-verse non è la sola architettura musicale che conosce.

Le enciclopedie dicono che "The Colour of Spring" è un album di transizione, una definizione che solitamente ha un tono liquidatorio, ma non questa volta; la transizione, piuttosto evidente,  lo rende un interessantissimo ibrido fra l'easy listening  di "It's my life", che pure, va detto, non era malaccio, e l'avant garde del successivo "Spirit of Eden", un disco decisamente anticommerciale che comunque un'ascoltatina la meriterebbe.

Hollis e soci si procurano qualche sessionmen interessante, e reclutano Steve Winwood per decorare le pareti con un po' del suo Hammond, ed ecco un platter avventuroso, ricco, atmosferico, progressivo e progressista, in cui la musica prende il sopravvento sulla stantia struttura pop, l'arrangiamento sta sopra il refrain, segno che la specie si è evoluta, e non può accontentarsi di pochi pattern elettronici precotti. In fondo non è così strano: lo hanno fatto anche i Tears for Fears in quel periodo, fermandosi però qualche metro prima.

Basterebbe "Happiness is easy" come esempio, con il suo groove di batteria quasi funky e quell'inserto vibrante di contrabbasso che rischia ogni volta di friggerti i woofer; non è anni '80 questo livello di sofisticazione, e neppure questa perfetta proporzione fra pieni e vuoti, che conferisce ad un arrangiamento ricco la capacità di assobire l'ascoltatore, anzichè subissarlo di suoni.

Ma ci sono anche la notturna "I dont' believe you", le tre tastiere sovrapposte di "Life's what you make it", un'escursione soul con "April 5th", eccellenti giri di basso e armonica, più qualche amenità sociofilosofica, in "Living in another world", "Chameleon Day" trovata nell'armadio degli Art of Noise, e in generale la sensazione netta che Hollis e Tim Friese-Greene, l'altra "mente" della band, in quel periodo fossero come una cricca di ventenni che arriva ad Amsterdam, con la voglia di provare qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa che non fosse anni '80 possibilmente, visto che passarono perfino al Montreux Jazz Festival, a farsi vivisezionare da gente col palato fine.

Cinque stelle lusso comunque, e anche la registrazione è molto buona.

Condividi post
Repost0

commenti